CAMBIAMENTI CLIMATICI E MIGRAZIONI SETTIMANA DI MOBILITAZIONE
CNES – COMITATO NAZIONALE PER L’EDUCAZIONE SOSTENIBILE CNI UNESCO-AGENDA 2030
DOCUMENTO PER PROMUOVERE LA SETTIMANA 2017,A cura del Comitato Scientifico
Poco più mezzo secolo fa, Kenneth Boulding (1966) proponeva il problema globale delle risorse limitate e della loro gestione contro il modello di uno sviluppo senza limiti, l’“economia del cow boy”, e contro il feticcio del PIL. “Spaceship Earth” fu la parola d’ordine della prima giornata mondiale della Terra, il 22 aprile 1970. Ma a che punto siamo? Lo sconvolgimento climatico in atto – il “punto di non ritorno” è stato anticipato dall’IPCC al 2030 –, la crisi ambientale col suo corredo di depredazione delle risorse a danno di intere popolazioni e della salute di tutti, l’attacco alle foreste pluviali e alla biodiversità sono solo l’altra faccia dell’economia dello sfruttamento e dello spreco, ancora basata sull’illusione che la Terra possa riprodurre indefinitamente le risorse per una crescita senza limiti.
A una crescita fondata sulla dissennata spoliazione dei beni della Terra, sulla logica del profitto a ogni costo e sull’onnipotenza del mercato regolato da una finanza mondiale che non ha più regole bisogna contrapporre un nuovo modello basato sul rispetto dell’uomo e dei cicli riproduttivi della natura, e, contro ogni spreco, sull’uso efficiente delle risorse, sulla manutenzione del territorio e sulla ricostruzione e il recupero dei beni.
Il limite delle risorse disegna scenari ancora più drammatici rispetto alle attuali tragiche guerre per il controllo delle risorse naturali, idriche ed energetiche che produce dei veri e propri esodi ambientali. Il global warring ha effetti drammatici sulla disponibilità delle risorse idriche, accentuando il divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri: dalla siccità che provoca carestie e malattie, alle sconvolgenti alluvioni che distruggono i territori, una sequenza a ripetere che disegna un cerchio crudele che unisce i mutamenti climatici al degrado ambientale alla povertà e al disagio sociale.
Il cambiamento climatico mette in pericolo la vita nel Pianeta, così come per innumerevoli ecosistemi, incide pesantemente sulla qualità e quantità del capitale naturale globale. La correlazione tra aumento della concentrazione di anidride carbonica e aumento della temperatura del Pianeta, dovuta al massiccio impiego di combustibili fossili, non è solo un fenomeno destinato ad aggravarsi gradualmente nei decenni futuri, ma va inteso come abbassamento della soglia di stabilità non solo termodinamica ma anche economica e sociale.
E’ necessario dirigersi velocemente verso una riconversione ecologica dell’economia e della società, è necessario che divengano protagonisti i cittadini, sia come individui che come gruppi associati, movimenti e istituzioni tesi a questo obiettivo.
Allora, si riparte con la campagna nazionale di Educazione alla Sostenibilità Ambientale nell’ambito dell’Agenda ONU 2030. E’ nato a tale scopo sotto l’egida dell’UNESCO il Comitato Nazionale Educazione alla Sostenibilità (CNES). L’obiettivo è di promuovere in tutto il Paese manifestazioni per riflettere ed agire a sostegno della strategia internazionale per promuovere i 17 obiettivi per un futuro sostenibile.
Ci prefiggiamo di contribuire a contrastare gli sconvolgimenti climatici e a promuovere stili di vita sostenibile per abitare in modo responsabile il pianeta Terra, proseguendo lungo il percorso tracciato con successo dal “Decennio UNESCO-DESS”, che tra il 2005 e il 2014 ha caratterizzato l’impegno di centinaia di istituzioni, associazioni e Organizzazioni Non Governative (ONG.
Ci rivolgiamo ai protagonisti delle migliaia di iniziative che nel corso di quel decennio sono state realizzate, per trasformare l’educazione in pratica concreta: associazioni, scuole, luoghi di lavoro, organizzazioni sindacali padronali e dei lavoratori, Istituzioni e Enti, gruppi di cittadini e singole persone perché promuovano informazione, iniziative e mobilitazione sul tema “CAMBIAMENTI CLIMATICI E MIGRAZIONI”, che, lanciato nella settimana “evento” (20-26 novembre), sarà il leit-motiv della campagna nazionale 2017-2018 di “Educazione alla Sostenibilità Agenda 2030”.
Già pochi mesi dopo l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto (16 febbraio 2005) le Accademie delle Scienze dei Paesi del G8, più quelle di Cina e India, rivolgevano uno statement direttamente ai Capi di Governo riuniti nel G8 di Gleneagles, nel quale indicavano nelle attività umane la causa preminente del global warming e sollecitavano per farvi fronte una “prompt action” di tutte le nazioni, a partire da quelle rappresentate in quel vertice. L’anno seguente le Accademie, le stesse più quella del Sud Africa, ribadivano la loro esortazione al G8 di S. Pietroburgo.
L’entrata in campo del mondo scientifico, con questa ampiezza rappresentativa e questa determinazione, era sicuramente motivata dai ritardi e dall’assenza di risultati nella lotta ai cambiamenti climatici in termini di politiche mirate, ma, sul terreno più strettamente scientifico, dall’uscita nel 2002 del rapporto “Abrupt Climate Change”, prodotto dal National Research Council dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti. Nel rapporto le campagne di rilevazione condotte per un decennio in tutto il mondo, dall’Antartide al golfo del Venezuela, e le riflessioni teoriche e i modelli studiati portavano a una drammatica conclusione: non ci sono da attendere i decenni a venire, ci troviamo già nel passaggio all’instabilità del clima, con tutte le conseguenze sempre più accelerate che lo sconvolgimento climatico comporta: innalzamento delle temperature, fusione delle grandi masse ghiacciate del polo Artico, dell’Antartide e dei grandi ghiacciai del Quaternario, tropicalizzazione del clima con l’innalzarsi dello zero termico sulle catene montuose, estendersi della siccità a aree sempre più vaste, moltiplicarsi degli eventi meteorologici estremi con tutti i fenomeni implicati da queste modificazioni.
La risposta agli appelli delle Accademie è venuta con inaspettata tempestività da una parte del mondo politico. Il Consiglio dell’Unione Europea nel marzo 2007 si dava “i tre 20%” come obiettivi al 2020: riduzione del 20% rispetto al 1990 delle emissioni di CO2, il gas “serra” maggioritario; riduzione del 20% dei consumi d’energia attraverso una maggior efficienza dei sistemi energetici e copertura col 20% di fonti rinnovabili dei restanti consumi energetici, totali, non solo elettrici. I tre 20% della UE sono divenuti elemento di dibattito e punto di riferimento per tutti i Paesi impegnati nella mitigazione dei cambiamenti climatici, nella lotta al global warming. E’ stato un percorso difficile, irto degli ostacoli e delle resistenze dei grandi interessi legati ai combustibili fossili, degli “scetticismi” quando non dei negazionismi che avversavano questo tipo d’impegno, di una certa impreparazione scientifica e culturale in vari settori delle amministrazioni e dell’opinione pubblica, ma industrie e mercato hanno cominciato a rispondere con risultati sempre più significativi, legittimando così il termine “rivoluzione energetica” usato per descrivere quel che sta accadendo negli ultimi dieci anni nel “Pianeta Energia”. Né va certo dimenticata l’azione degli “stakeholders”, così amiamo chiamare quella piccola minoranza, quell’esiguo numero di cittadini che, riuniti in associazioni ambientaliste, comitati, gruppi di pressione, incalzano ogni giorno le sedi decisionali di ogni livello – locale, territoriale, nazionale, mondiale – riuscendo a contaminate positivamente delle loro idee insieme alla società quelle sedi, e ottenendo quei provvedimenti concreti e quell’impianto generale che è alla base dell’Accordo di Parigi. Siglato il 12 dicembre del 2015, l’Accordo è stato ratificato dai Capi di Governo di 185 Paesi il 22 aprile 2016, non a caso la “Giornata della Terra”, la “navicella spaziale” di Kenneth Boulding.
Purtroppo però “i buoi sono già scappati dalla stalla”. Nonostante i risultati sorprendenti che la sostituzione dei combustibili fossili e l’impiego di fonti rinnovabili sta avendo proprio nei Paesi in Via di Sviluppo (PVS), per non parlare del ruolo leader assunto dalla Cina dopo che l’UE ha fatto per anni da “apripista”, i tempi di permanenza della CO2 in atmosfera sono lunghissimi e dobbiamo perciò educarci e educare a non considerare più come emergenza quelle modifiche climatiche che abbiamo sopra ricordato, ma a considerarle come il contesto dei prossimi decenni con gli sconvolgimenti che abbiamo imparato a conoscere e con le conseguenze sanitarie sulle quali dobbiamo meglio riflettere.
Tra le conseguenze più drammatiche dei cambiamenti climatici c’è l’esodo di milioni di persone dai loro Paesi. Un fenomeno che caratterizzerà il 21° secolo, un flusso in aumento schermato in parte in questi anni dal concorrente drammatico esodo dai Paesi teatro di conflitti.
Già nel 2008 l’“United Nations Development Program Report” riferiva questi dati relativi al quinquennio 2000 – 2004:
262 milioni di persone erano state colpite da disastri climatici, il 98% delle quali appartenenti a PVS;
521 milioni erano state a rischio di inondazioni, oltre il 60% delle quali, 330 milioni, erano state costrette a spostarsi permanentemente;
344 milioni erano state esposte al rischio di cicloni tropicali e uragani;
130 milioni erano vissute sotto la minaccia di ondate di calore e siccità.
E per il futuro? Le Nazioni Unite prevedevano 50 milioni di rifugiati ambientali al 2020, soprattutto nell’emisfero Nord del pianeta, ma il “Global Risks Report 2017” valuta che già nel 2015 gli emigrati per motivi ambientali costituivano una popolazione pari a quella italiana, 60 milioni, e mette il global warming al primo posto come fattore di rischio, sottolineando che ha causato un aumento della temperatura media annuale di più di 1 ° C rispetto a quella dell’età pre-industriale.
Per il 2050 esperti e studiosi valutano in almeno 250 milioni i “rifugiati ambientali”, ma Christian Aid, un’ONG, fornisce la previsione più pessimistica di 1 miliardo di persone. Secondo questa stima 250 milioni di esodi permanenti sarebbero causati dalle sole inondazioni, cui si vanno a aggiungere quelli dovuti a molte altre cause, quali: sfruttamento del suolo, attività di miniera, costruzione di dighe colossali, nuovi insediamenti industriali e di aree urbane, scarsità d’acqua.
Certo, stime sulla situazione attuale e previsioni soffrono della povertà dei dati raccolti, della difficoltà di raccoglierli e classificarli.
Ma che cos’è un “rifugiato ambientale”?
Il termine fu proposto per la prima volta nel 1976 da Lester Brown, leader e editor del Worldwatch Institute, per mettere ordine nella proliferazione dell’uso di termini analoghi. Varie definizioni di questa condizione umana sono state avanzate da organizzazioni dedicate come l’International Organization for Migration (IOM) o da vari studiosi (Norman Myers, 2005; Frank Biermann e Ingrid Boas, 2010) ma tutte, in generale, fanno riferimento alla mancanza di sicurezza per la loro vita, determinata da cambiamenti ambientali, che costringe questi esseri umani ad abbandonare, temporaneamente o permanentemente, la loro casa e a spostarsi nel loro territorio o all’estero. Disperati, disposti anche ad affrontare quei gravi rischi che il dramma della “rotta del Mediterraneo” ha insegnato a noi, qui in Italia, di fronte invece a gravi sottovalutazioni, quando non a deprecabili sordità, della quasi totalità dei Paesi della UE.
A parte sensibili differenze tra definizioni e, soprattutto, tra diversi punti di vista resta il fatto che il “rifugiato ambientale” non esiste giuridicamente. Esso infatti non ha un riconoscimento legale né in forza del Protocollo di Ginevra del 1951, né in virtù Protocollo aggiuntivo del 1967. E questo, per passare dal dibattito alla proposta, rimanda alla priorità che l’“United Nations High Commissioner for Refugees” (UNHCR) venga dotato di risorse e esperti per costituire un apposito Osservatorio sui rifugiati ambientali, necessaria premessa per un riconoscimento giuridico internazionale di tale condizione.
Anche su questo tema si è in ritardo, se si pensa che, a parte i già ricordati appelli delle Accademie al mondo politico, nel 2009 José Manuel Barroso, allora “premier” della UE, indirizzava un messaggio ai Capi dei Paesi riuniti a New York in preparazione della Conferenza delle Parti (CoP) che si sarebbe tenuta a dicembre a Copenhagen:
“Climate change has had such acceleration in the last two years that not to face seriously the issue could expose all of us to the risk of a climate catastrophe during this century”.
Un monito risuonato pochi anni dopo nel primo numero online del 2012 di Nature, nel quale la rivista rivolgeva un accorato appello a tutti gli scienziati di risvegliare la pubblica opinione mondiale, con tutte le forme di comunicazione rese possibili dai moderni media e dai social network, sulla gravità dei cambiamenti climatici perché:
“The threat has never been greater”.
Se i mezzi di comunicazione – inclusi i social – devono essere in prima fila per illustrare questa minaccia, e rendere la popolazione consapevole non solo dei rischi ma anche degli strumenti necessari per prevenirli, è all’educazione che spetta il compito di modificare più in profondità atteggiamenti, stili di vita, e valori. Come sostiene l’UNESCO (2015): L’educazione può e deve contribuire a una nuova visione dello sviluppo sostenibile globale.
L’educazione costituisce solo uno degli obiettivi dell’Agenda 2030, l’obiettivo 4, ma in qualche modo li comprende tutti: l’Educazione allo Sviluppo Sostenibile proposta dall’UNESCO a sostegno dell’Agenda 2030 “non solo inserisce nel curricolo in maniera integrata contenuti come il cambiamento climatico, la povertà, e il consumo sostenibile, ma crea ambienti di insegnamento-apprendimento interattivi e centrati sull’alunno. Quello che l’ESS richiede è uno spostamento dall’insegnamento all’apprendimento; l’ESS richiede una pedagogia trasformativa e orientata all’azione, che sia di supporto all’apprendimento autonomo, alla partecipazione e alla collaborazione, a una didattica ‘per problemi’, all’inter e alla trans-disciplinarità, e alla connessione tra apprendimento formale e informale. Solo un approccio pedagogico di questo tipo rende possibile lo sviluppo delle competenze chiave necessarie per promuovere uno sviluppo sostenibile.” (UNESCO, Education for Sustainable Development Goals. Learning Objectives. 2017, pag. 7).
Per cambiare il nostro modello di sviluppo occorre cambiare anche il sistema educativo che a questo modello è funzionale. Informazione scientifica e aggiornata quindi, ma anche:
- educare a un pensiero sistemico che cerchi di abbracciare la complessità e che colga l’interdipendenza di tutti i fattori, da quelli economici a quelli sociali a quelli ambientali;
- educare a cogliere e ad apprezzare la diversità ma anche a scoprire i vincoli che ci sono imposti dalla natura delle cose e a rispettarli, nella consapevolezza che senza rispetto dei vincoli e delle regole, naturali e sociali, non c’è futuro possibile;
- educare ad accettare l’incertezza intrinseca in un mondo complesso, ma anche ad agire per prevenire e ridurre i rischi, anche i rischi globali come quello climatico.
I cambiamenti climatici faranno parte del contesto per molte decadi; e, con essi, le grandi migrazioni. delle quali sono stati forniti alcuni elementi di conoscenza e riflessione. E mentre ci si continuerà a battere per la realizzazione di politiche di mitigazione – green economy e “rivoluzione energetica” ne sono i cardini – l’adattamento e l’accoglienza saranno i grandi temi che l’umanità dovrà affrontare, forse più di quelli connessi alle accelerazioni dell’innovazione tecnologica e delle conseguenti modifiche economiche e socio-culturali.
Il sistema educativo può contribuire molto alla comprensione e alla trasformazione dell’attuale sistema di sviluppo se accetta il suo ruolo trasformativo, se si propone di costituire l’anima critica e propositiva del sistema sociale, di non accettare per scontati saperi e discipline, di saperle rimettere in discussione per una nuova rivoluzione scientifica, e pedagogica, quella della sostenibilità.
DOCUMENTO UNESCO
OBIETTIVO EDUCAZIONE ALLO SVILUPPO SOSTENIBILE
http://unesdoc.unesco.org/images/0024/002474/247444e.pdf